C'era una volta in Anatolia
C’era una volta in Anatolia è un film che difficilmente riesci a schematizzare e collocare in una genere particolare o prestabilito. E’ un film “on the road” in cui un gruppo di persone molto eterogeneo va alla ricerca di un cadavere per una nottata intera, lungo i sentieri bui dell’Anatolia.
Seguiamo tre auto in cui viaggiano un assassino con il suo complice, un commissario, un magistrato, un medico e alcuni agenti di polizia, tutti alla ricerca del punto in cui è stato seppellito un cadavere.
Il buio, la vastità del territorio, il somigliarsi della lunga strada porteranno questa carovana di auto in giro per molte ore, molte di più di quelle che avevano previsto alla partenza.
La fontana e l’albero, punti di riferimento nei cui pressi l’assassino ha seppellito la vittima non sono facilmente individuabili, in questa vasta landa desolata ci sono spesso fontane e alberi posizionati in modo simile.
Il gruppo sarà costretto a viaggiare, fermarsi e ripartire, fare una pausa in un piccolo villaggio durante la notte, riprendere la ricerca il mattino seguente. Troveranno poi ciò che cercavano, ma dovranno, in modo arrangiato, caricare il cadavere in una delle auto prima di ritornare in città.
Da questo punto in poi seguiremo il medico, che farà riconoscere il corpo alla moglie della vittima prima di eseguire l’autopsia.
La parte di ricerca è molto lunga, buia ed estenuante. Man mano che il tempo passa, gli animi dei viaggiatori cambiano umore, il film rende perfettamente ciò che stanno provando, dall’insofferenza alla noia, al sentirsi presi in giro, come se l’assassino gli stesse facendo perdere tempo, ma sarà palese anche il senso di stordimento dell’uomo che ha commesso l’omicidio, come se non fosse pienamente in se, come se fosse confuso e traumatizzato dagli eventi.
Ciò che salta agli occhi, oltre a questo viaggio lungo della spedizione, è quel senso quasi di claustrofobia per lo stare rinchiusi forzatamente in quelle auto a girovagare per ore ed ore, fa quasi mancare l’aria.
Le scene di notte sono volutamente buie, dove la sola fonte di illuminazione è quella dei fari delle auto. Tutta la nottata si svolge per lo più al buio, tranne per nella parte in cui si fanno ospitare dal sindaco di un piccolo villaggio, dove cenano, ma quando hanno quasi concluso il pasto la luce va via e restano di nuovo al buio.
I protagonisti della vicenda, dapprima sembrano dei semplici osservatori, poi man mano che iniziano a delinearsi i personaggi, questi acquistano una posizione di rielevo rispetto allo sfondo su cui si muove la storia. I dialoghi nelle auto, anche se possono sembrare delle stupide conversazioni, servono trasmettere allo spettatore gli usi e i costumi di quelle terre, il retaggio culturale dell’Anatolia.
Nessuna scena, neanche quella apparentemente più inutile è lasciata a se stessa o al caso. Ciò che resta del film alla fine è una buona ed insolita regia, una interessante fotografia, la scelta per lo più di inquadrature larghe che lasciano vedere una scena per intero, come se fosse il punto di vista di un osservatore esterno, mentre la colorazione è sul giallo. Il film è esteticamente interessante.
Un altro aspetto da tenere in conto è la vastità del territorio, molto isolato, chilometri e chilometri di colline verdi con solo una strada che le attraversa, senza alcuna costruzione, senza nessun punto di appoggio.
I piccoli villaggi, invece, nonostante siano quasi autosufficienti, trasmettono proprio un senso di desolazione, sono molto isolati, abitati da poche anime, per lo più in età avanzata, i giovani si sono trasferiti in centri più grandi.
La sala autopsie, molto rudimentale, ti da l’idea che il paese sia arretrato di alcuni decenni, lontano anni luce da ciò a cui siamo abituati a vedere nei film occidentali.
Il film è interessante, diverso dal solito, un film che si lascia guardare tranquillamente e che incuriosisce lo spettatore, nonostante la sua lunga durata. Un film da guardare se si ha voglia di qualcosa di non comune e non particolarmente veloce come narrazione.