Dollhouse
Mettiamo che una persona sia tanto folle da cedere l’utilizzo di se stesso, per un tempo più o meno lungo ad una struttura chiamata Dollhouse, che in questo luogo la persona sia privata dei suoi ricordi, ridotta ad un involucro quasi del tutto vuoto, come se fosse un automa su cui installare una personalità diversa in base alle esigenze del cliente danaroso si turno.
E’ questo che succede alla Dollhouse, un gruppo di giovani persone, attraenti e fisicamente atletiche vengono utilizzate come delle bambole pronte ad essere ‘confezionate’ e affittate da chi può permettersi economicamente tale lusso. Le Doll vivono una finta vita con i clienti, mentre nella Dollhouse sono in uno stato di pacatezza e assenza di emozioni – ricordi, alimentate, tenute in esercizio fisico e sotto controlli medici, in attesa di essere caricate di una personalità e affittate.
Lotte di potere, indagini dell’FBI, il risveglio della Doll Echo, sono il fulcro della storia, per niente banale che risulta anche interessante sotto vari aspetti socilogici, emotivi e morali.
Whedon ha realizzato due stagioni di questo telefilm che trovo raccapricciante, perché vedere queste persone imbambolate, inermi, costruite e distrutte ogni volta è veramente allucinante. Ogni stagione si chiude con un episodio Epitaph che mostra un qualcosa che accade nel futuro, un futuro non particolarmente allettante, abbastanza brutto e duro, quasi apocalittico.
Consiglio la visione se vi piace lo stile di Whedon, se vi va di rivedere Eliza Dushku e se non vi aspettate una storia semplice, delicata, dove tutte le cose poco piacevoli si risolvono sempre per il meglio.